In questi giorni Mondadori propone in libreria la nuova edizione di Tutte le poesie di Salvatore Quasimodo, a cura di Carlangelo Mauro, Dottore di ricerca in Italianistica che collabora con la cattedra di Letteratura Italiana Contemporanea dell’Università di Napoli.
La raccolta presenta anche alcuni inediti e le traduzioni di Quasimodo de I Lirici greci, considerate da Carlangelo Mauro atto creativo del poeta piuttosto che traduzione lineare.
Un impegnativo lavoro quello dell’autore, mosso dalla passione e dalla approfondita conoscenza dell’espressione artistica del poeta; lo testimoniano gli Apparati, la cui lettura presenta in realtà la profonda analisi di un saggio critico.
Salvatore Quasimodo, importante esponente dell’ermetismo, le sue liriche tradotte in diverse lingue, al quale venne conferito il Premio Nobel per la Letteratura nel 1959 “Per la sua poetica lirica, che con ardente classicità esprime le tragiche esperienze della vita dei nostri tempi”.
Parlare di lui mi ricorda l’incontro che ebbi con Maria Cumani, la consorte del poeta.
Non solo una danzatrice, piuttosto una autentica artista della danza e anche lei poetessa, donna dall’eleganza interiore indimenticabile, come straordinaria l’eleganza dei suoi abiti. Da qualche decennio mi onora della sua amicizia il loro figlio Alessandro, attore, uomo di profonda cultura, interprete delle poesie del padre che declama facendo vibrare nelle parole carne e sangue.
Indimenticabile la sua lettura della profondissima Lettera alla Madre.
Giovanna Ferrante
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SALVATORE QUASIMODO, Lettera alla madre.
«Mater dolcissima, ora scendono le nebbie,
il Naviglio urta confusamente sulle dighe,
gli alberi si gonfiano d’acqua, bruciano di neve;
non sono triste nel Nord: non sono
in pace con me, ma non aspetto
perdono da nessuno, molti mi devono lacrime
da uomo a uomo. So che non stai bene, che vivi
come tutte le madri dei poeti, povera
e giusta nella misura d’amore
per i figli lontani. Oggi sono io
che ti scrivo.» – Finalmente, dirai, due parole
di quel ragazzo che fuggì di notte con un mantello corto
e alcuni versi in tasca. Povero, così pronto di cuore
lo uccideranno un giorno in qualche luogo. –
«Certo, ricordo, fu da quel grigio scalo
di treni lenti che portavano mandorle e arance,
alla foce dell’Imera, il fiume pieno di gazze,
di sale, d’eucalyptus. Ma ora ti ringrazio,
questo voglio, dell’ironia che hai messo
sul mio labbro, mite come la tua.
Quel sorriso m’ha salvato da pianti e da dolori.
E non importa se ora ho qualche lacrima per te,
per tutti quelli che come te aspettano,
e non sanno che cosa. Ah, gentile morte,
non toccare l’orologio in cucina che batte sopra il muro
tutta la mia infanzia è passata sullo smalto
del suo quadrante, su quei fiori dipinti:
non toccare le mani, il cuore dei vecchi.
Ma forse qualcuno risponde? O morte di pietà,
morte di pudore. Addio, cara, addio, mia dolcissima mater.»