L’Ippodromo di Milano, uno degli ippodromi più belli al mondo. C’era una volta Milano capitale italiana dell’ippica.
L’Ippica è, all’inizio dell’Ottocento, tra gli sport che spopolano, unitamente alla ginnastica e al canottaggio. Le corse a cavallo in piazza d’Armi, dietro al Castello, potevano andar bene all’inizio dell’Ottocento, ma adesso esigo una sede adatta. Insomma, io sono una città alla moda.
Fortunatamente nel 1883 è stata fondata la “Società Lombarda per le corse dei cavalli”, che qualche anno dopo decide di costruire un ippodromo e la scelta del luogo privilegia S.Siro. Il progetto viene affidato all’architetto Giulio Valerio che realizza tutti gli impianti – le Tribune, il Casino della Direzione con il portico per il pèsage, la Sala Caffè, gli spazi di servizio per i fantini, le scuderie, l’infermeria – nel segno di una eleganza leggera, effimera, come si addice a un sport stagionale. L’inaugurazione avviene nel Maggio del 1888.
“Che giorno, quel giorno. Mi presento sono il Duca Guido Visconti di Modrone. Ebbi l’onore e la gioia di assistere al primo inizio della vita del nostro Ippodromo.”
Nel 1909 si costruirà la pista del galoppo, sui terreni del Comune di Trenno, adiacente a Milano, e un trottatoio coperto di 500 metri per gli allenamenti invernali. Due anni dopo la “Società Lombarda per le corse dei cavalli”, vista l’affluenza sempre più numerosa verso l’ippica, promuove un concorso internazionale per rinnovare l’Ippodromo con l’intenzione di ampliare anche la tribuna principale. Il concorso sollecita l’interesse di molti architetti e gli elaborati dei loro progetti verranno esposti al Palazzo della Permanente. Vince il progetto firmato dagli architetti Paolo Vietti-Violi e Arrigo Cantoni.
Successivamente però la Società delibera di costruire ex-novo l’Ippodromo, e i lavori inizieranno nel 1914. La Commissione Esecutiva è formata dal Conte Emilio Turati, dal Senatore Bocconi, dal Conte Negroni Prati Morosini, dal Conte Giacomo Durini e dal Cav. Uff. Locatelli.
Non devo essere orgogliosa? Lo fecero per dotare me, Milano, di un ippodromo. Un ampio e perfetto campo di corse, il più moderno in Italia, riferimento prezioso per tutti gli impianti analoghi. E accanto a questo gli edifici, realizzati con cura mettendo in risalto gli elementi propri dell’emergente Stile Liberty.
C’erano dei ragazzi che offrivano del miele lì all’Ippodromo, in quella domenica di festa d’un giugno ardente. Era stato organizzato un insieme di eventi per attirare i milanesi, far loro conoscere questo spazio così bello, cosi verde, non solo ippica, cavalli e scommettitori e puntate, anche un modo diverso e piacevole di trascorrere un pomeriggio. Oltre agli eventi qualche bancarella, e fra queste quella degli apicoltori. I cavalli intanto… un’esuberante celebrazione, un’esplosione di creatività, lo sanno loro come lanciarsi, come volare sulla pista, lo sanno loro, eroi di una epopea che continua a far sognare… e i fantini? Guidare un cavallo alla vittoria è come suonare uno strumento. Talento, passione, e molti allenamenti. Erano arrivate. Insieme. Come sempre. Amiche? Non molto. conoscenti piuttosto. Tutte due alta società. tutte due appassionate di ippica.
Elsa, la poetessa, capelli neri corti, magrissima, stravagante nei suoi foulard colorati, mille braccialetti a polsi, anelli a tutte le dita, grandissimi, di vetro di tutti i colori. E pensare che avrebbe potuto permettersi brillanti, rubini, zaffiri, smeraldi. Eccentrica, ecco. Diceva che i cavalli vincenti li sognava. Poi che i sogni si avverassero o no… Comunque la sua assenza avrebbe tolto molto allo spirito dell’Ippodromo.
Raffaella, capelli fulvi, pelle bianchissima, mani da pianista. Raffinata, elegante, perfetta in ogni occasione, si distingueva da tutte nelle giornate di gala lì all’Ippodromo. Figlia di famiglia importante aveva girato il mondo, aveva conosciuto nella casa dei genitori- in pieno centro- i più bei nomi dell’aristocrazia, gli artisti più illustri, i politici più potenti. Era avvolta nell’alone misterioso e leggendario di un grande amore infelice. Puntava cifre da capogiro, vinceva e perdeva sempre con il solito sorriso gentile.
Un giorno non arrivò. Neppure il giorno seguente. Elsa, la poetessa, non sapeva. Si seppe poi. Si era fatta suora. Lei? Come aveva potuto scegliere di vivere rinchiusa? Senza gli amati cavalli, senza le corse, senza il brivido delle scommesse? Si disse infine che l’amore infelice ne aveva spento per sempre il sorriso e lei per placare il dolore si era incanalata nel silenzio.