Oggi è il giorno dopo.
Ieri, 27 agosto 1950, in una camera dell’Albergo Roma in piazza Carlo Felice a Torino, Cesare Pavese si è suicidato.
E oggi tutta Torino ne parla, come ne parlano sgomenti tutti gli intellettuali d’Italia.
È morto un grande romanziere, importante poeta, traduttore e critico.
“Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti. Ho cercato me stesso”
Non poteva che concludersi così la sua “fatica di vivere”, il suo continuo tormento interiore al confronto con la realtà.
“Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più”
E la sofferenza per il costante rifiuto da parte della vita di assecondare il suo profondo struggente bisogno di un amore.
Donne ce n’erano state, ma scriverà
“Non mi sono mai svegliato con una donna mia al fianco, chi ho amato non mi ha mai preso sul serio e ignoro lo sguardo di riconoscenza che una donna rivolge ad un uomo”.
Il suo disagio esistenziale, l’abissale depressione, gli avevano già suggerito quel giorno di morte. L’aveva raccontato, quel suo ultimo giorno, in una poesia di anni addietro.
“Ci si sveglia un mattino, una volta per sempre,
nel tepore dell’ultimo sonno…
Dalla scala salita un giorno per sempre
non verranno più voci né visi morti.
Non sarà necessario lasciare il letto,
solo l’alba entrerà nella stanza vuota… quasi una luce
poserà un’ombra scarna sul volto supino
I ricordi saranno dei grumi d’ombra…