Aveva due sorelle di specchiata onestà. Lavoravano in casa, facevano le sarte. E la casa la tenevano che era uno specchio.
Con loro si era sempre sentita a disagio. Intanto era molto più bella, con i capelli lunghi, mossi in morbide onde, rosso tiziano, e gli occhi grandi, verdi. I suoi colori, che contrastavano con il loro grigiore, con quella patina vecchia già da giovani.
I suoi capelli. Come le piacevano. Se li lavava spesso e poi li massaggiava a lungo con il tuorlo d’uovo. Divideva il tuorlo dall’albume rompendo l’uovo in una tazza di ceramica grossolana, di un bianco avorio con il manico a ricciolo; una tazza ormai sbeccata che non voleva assolutamente buttare via, lei in genere poco attenta a fare economia, lei così spendacciona e generosa per sé e per gli altri. Ma quella tazza… le ricordava sua nonna, ricordava quando ci sbatteva l’uovo con lo zucchero per la sua merenda di bambina e prima le faceva bere l’albume “che fa bene, rinforza le ossa”:
E a lei piaceva tanto ricordarsi bambina, forse in qualche modo dentro lo era ancora.
Le sue sorelle sembravano percorrere la vita senza attraversarla: casa, lavoro, chiesa la domenica e le feste comandate, mai un urlo di vita, un amore, uno sbaglio fatto cavalcando l’onda alta di una passione.
Per loro, mai. Per lei, la terza sorella, sempre.
Innamoramenti, risate, rientri in piena notte, entusiasmo, poi abbandoni, lacrime, regali lanciati a frantumarsi contro le pareti.
Un giorno, dopo l’ultima tempesta, l’aveva conosciuto.
Si era innamorata di lui forsennatamente. Lo sapeva che era sposato, che aveva due figli, non le aveva nascosto niente, neanche però il sentimento che provava per lei. E lei lo aveva ricambiato. Le sorelle lo avevano saputo. Da lei, che non sapeva tener nascosta la sua felicità, la sua follia, da lei, carica dei colori accesi dei suoi vestiti, delle sue sciarpe, delle sue collane.
Com’erano sferzanti i loro commenti, com’erano sottili, cattive, le loro labbra mentre pronunciavano i loro giudizi feroci.
Com’erano accoglienti le braccia di lui, com’erano inebrianti i suoi baci, com’era profumata l’aria di Milano attraversata dalle folate del suo amore. Com’erano buoni i piatti che le preparava, lui cuoco provetto quando la aspettava al suo ristorante di viale Corsica.
Poi, prima ancora della certezza, l’intima consapevolezza d’aspettare un figlio.
Lui si era spaventato, il vento nel cuore e sulla pelle gli piaceva, gli restituiva intatto il sapore della vita, ma un figlio …
Era un uomo sposato, una cosa era un’avventura segreta, altro era scatenare un terremoto che avrebbe lasciato dietro di sé le macerie di una famiglia.
Si era dileguato.
Le sue sorelle non erano più fatte di carne, d’ ossa, sangue, no, erano solo accuse, indici alzati, “Te l’avevamo detto”, angoscia per il giudizio che a breve sarebbe pesato sulle spalle di tutte tre, colpevole e innocenti chiuse nello stesso banco d’ imputate.
Lei lavorava in fabbrica, ma non ce l’aveva un posto fisso. Per qualche tempo aveva aiutato una donna che faceva i mercati ambulanti con un carretto di cotoni, cerniere e bindelli.
“Con un figlio qui non puoi stare”. Le sorelle erano irremovibili. E così l’aveva partorito e l’aveva dato al Brefotrofio, quell’Istituto che era stato costruito anni prima in Viale Piceno. In fondo si era detta che lì era un po’ casa sua, lei non era nata molto lontano, in una casa di quella che si chiama Piazza Grandi.
L’aveva detto, ma poi il magone l’aveva presa alla gola. “Un figlio di nessuno, mio figlio. Anch’io sono un nessuno. Come lui, come tutte quelle che attraversano questa soglia, un grumo di nulla”.
Aveva pianto tutte le sue lacrime e poi era tornata a casa. Giusto per prendere le sue cose e andare a cercarsi un posto dove stare.
Da quel giorno, grigia come le sue sorelle, niente più colori nei vestiti, nelle sciarpe, nelle collane. I capelli, raccolti sulla nuca, non mandavano più bagliori.
Si sposò qualche anno dopo, era andata a servizio presso una famiglia e l’aveva conosciuto perché alla sua bottega andava a comprare il pane. Un brav’uomo, che lavorava tanto e pensava solo a lei e al figlio che avevano avuto.
Un brav’uomo che anno dopo anno aveva sempre sopportato i suoi malumori, gli improvvisi lunghi silenzi, che solo una cosa di sua moglie non capiva: perché per la strada si voltasse con uno sguardo che sembrava una carezza se vedeva passare un ragazzo con i capelli rosso tiziano, e vestito con pantaloni e maglioni dai colori esagerati.