Varesotto, trentasei anni, un ometto trasandato “el Nan”, Giuseppe Grandi.
Amava la sua terra di Lombardia, il verde dei prati, i possenti tronchi degli alberi nei boschi, il cielo aperto, la natura, la vita semplice e lenta dei paesi. Ma amava, e molto, anche me, la grande Milano; la Milano fatta da tanta gente, piena di animate conversazioni, travolta dall’irregolarità furiosa della Scapigliatura di cui era un esponente.
Senza avvertire contraddizione alcuna, faceva convivere dentro di sé il bisogno di passi misurati per percorrere sentieri che portano su, in alpeggi dove al massimo si può trovare rifugio con un camino acceso, una fetta di polenta, e accanto un torrente d’acqua gelida che a immergerci le mani arriva un brivido fino in fondo alla schiena; e la necessità del chiasso assaporando la vita di città, insieme a bicchieri di vino e tonnellate di parole, inquietudini artistiche di poeti, musicisti, pittori, scrittori, scultori, per alcuni il demone del gioco, per altri la “fata verde”, l’assenzio.
Nel 1881 il Comune che mi amministra, bandisce un Concorso per celebrare degnamente con un arco o un obelisco, il ricordo delle Cinque Giornate, a sostituire il sobrio arco di Porta Volta che era stato realizzato dal Piermarini.
Al Concorso partecipano artisti dai nomi famosi. E partecipa anche lui, “el Nan”, animato da una furia creativa. Il bozzetto della sua opera, esposto in Brera, vince su tutti gli altri.
“Ma ci pensi, Giuseppe, hai vinto! Sono così emozionata, tu sei tutti noi, nella tua opera c’è la nostra voce”.
Brillano gli occhi ad Anna mentre alza il bicchiere per il brindisi. Anna Kuliscioff, la russa militante anarchica, la rivoluzionaria internazionale, molto bella, la lunga treccia bionda, affascina molti “la dottora dei poveri”. Lei, dedicata alla vita degli altri, dedicata all’impegno politico accanto a Filippo Turati, la sua grande storia d’amore, il sodalizio profondo che le dona sicurezza e determinazione.
Dopo la vittoria del suo bozzetto, Giuseppe Grandi cerca uno spazio per costruirsi uno studio. E lo trova in quella che oggi è il Municipio 4, all’Acqua Bella. Uno studio enorme, tanto da poterci ospitare un gesso grande la metà della realizzazione finale, le cinque modelle, Tacita Chiodini, Giannina Porro, Luigia Pratti, Innocentina Rossi, Maria Torroni, un’aquila, un leone. “Sì, voglio un leone che ruggisca ai piedi delle cinque giornate”. Per la verità Borleo, il leone, è una belva di buon carattere, per farlo almeno un po’ ruggire, Giuseppe deve lanciargli addosso le ciabatte.
Più difficile gestire cinque giovani modelle che devono interpretare le cinque giornate; la prima corre a suonare le campane per chiamare a raccolta i cittadini in rivolta, la seconda piange sulla sorte dei morti e dei feriti, la terza, scarmigliata, combatte sulle barricate, la quarta, quasi sospinta verso il cielo della speranza, la quinta nell’atto di dar fiato alle trombe.
“Non voglio essere io la quarta” L’Innocentina è furiosa. “Perché la prima deve essere la Tacita? Perché lei a suonar le campane e io come una scema a guardare il cielo e a impersonare la speranza? Sperare in che cosa? Se non si fossero dati da fare sulle barricate, altro che Milano libera e indipendente.”
“A me va bene tutto, cara mia. Se c’è da piangere, piango; quello che conta è che tutti mi vedranno e non sarò più una delle solite modelle ma quella dell’obelisco del Grandi”.
La Giannina intanto che parla si spalma una crema profumata sul viso, sul collo, sulle braccia. E’ la più vanesia; perché la sua figura non glielo ha permesso – è piuttosto in carne – ma avrebbe voluto fare la ballerina della Scala, e quando è ferma in posa arricchisce il suo sogno di nuovi particolari.
La Luigia intanto rivive con furia le ore tremende della battaglia, urla e combatte sulle barricate ricostruite dal Grandi lì all’Acqua Bella con un tavolo e due sedie rovesciate. Nessuna fatica per la Luigia a impersonare una popolana milanese che fronteggia con sassi, tegole o quel che c’è un nemico ben armato. Le basta pensare a quella cretina che le voleva portare via il marito, a come l’aveva presa per i capelli, a come le aveva gridato in faccia tutto il suo furore, e che poi le avevano separate prima che le potesse strappare gli occhi, che lo avrebbe fatto, oh se lo avrebbe fatto.
Tutto questo mentre la Maria suona la tromba per dar voce alla vittoria.
“È fatta, l’ho finito. Festeggiamo amici! Beviamo alla salute dei milanesi che fra cent’anni alzando gli occhi diranno – Questo qui l’ha fatto il Giuseppe Grandi che faceva lo scultore”.
Un Monumento eccezionale: peso di 845 quintali, costo di 600.000 lire, tredici anni d’ impegno per la realizzazione. Il 18 Marzo 1895 è il giorno della solenne inaugurazione. Il momento più toccante quando dall’Ospedale Maggiore arrivano le spoglie dei caduti, racchiusi in 35 cofani calati nel sotterraneo del Monumento.
Giuseppe Grandi che ha seguito ogni istante del compimento della sua opera, che ha assistito personalmente alla fusione, non c’è. È da poco deceduto. Ma la sua anima è lì, nel suo capolavoro, insieme a quelle cui con la sua arte ha voluto rendere omaggio.