La pattinatrice e la sua avventura al Palazzo del Ghiaccio di Milano.
“L’opera è compiuta. Il vanto delle metropoli mondiali è oggi vanto di Milano. Il Palazzo del Ghiaccio, sognato e plasmato nella materia, è oggi una realtà!”
È il 28 dicembre 1923.
L’edificio in via Piranesi, costruito in soli otto mesi di lavoro, contiene la più grande pista di pattinaggio al coperto mai costruita in Europa, ottava nel mondo.
Atrio con portiere in divisa guarnita di alamari, biglietteria, drappeggi in velluto rosso da superare per accedere agli sfarzosi interni, ristorante di lusso dove poter cenare – cene di gran classe – prima di raggiungere le poltrone sulle quali accomodarsi per assistere alle esibizioni in pista.
Al di sopra di tutto, 12 grandiosi lampadari per fornire una illuminazione superba.
Sfarzosi gli interni, perduti poi a causa dei bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale.
“Pattinare, lasciarsi andare, scivolare, è una magia, è vento, è nuvola impalpabile. E’ questo che fate provare voi, signorina. Posso offrirvi una coppa di champagne? Perché no? Suvvia, solo una coppa, del resto vi appartiene. Lo sapete che le coppe da champagne hanno la stessa forma del seno di Venere? Io credo che il vostro sia uguale. Non c’è motivo d’arrossire, siete bellissima; venite, brindiamo alla vostra bellezza.”
La pattinatrice aveva appena terminato di volteggiare e si era diretta verso l’uscita dalla pista, quando la voce di lui l’aveva raggiunta.
Lui. Guido da Verona, quarantaduenne romanziere di storie scollacciate, principe del romanzo d’appendice caratterizzato da una forte carica erotica. Alto, elegantissimo, sempre attorniato da belle donne, consueta la sua passeggiata in Galleria con i suoi due levrieri al guinzaglio.
“Accomodatevi.”
“Ma voi siete…”
“Si, sono Guido da Verona, il peccatore per eccellenza. Amo le donne, i cavalli, le belle auto, sono un dissipatore, un accanito giocatore. E sono anche uno scrittore, forse non eccellente però…” Parlava stringendo fra le dita un lungo bocchino d’avorio con l’immancabile sigaretta. L’oggetto una sorta di traforo, di merletto, che in pochi centimetri rappresentava il fianco di una montagna solcata da un sentiero che conduceva sino alla cima. Intagliate piccole figurine, uomini e donne in abiti giapponesi.
E intanto la guardava con uno sguardo intenso e magnifico.
“Io, ecco io leggo i vostri romanzi, e quello dell’altro anno “Mimì Bluette, fiore del mio giardino” ho sentito dire che ha venduto addirittura 300.000 copie!?”
“Ne gioite? Siete un’amica allora; perché in effetti ne ha gioito anche il mio editore, ma il suo entusiasmo era profanato dal sentimento del guadagno. Devo confessare anche la mia soddisfazione, scrivendo quelle pagine ho tanto amato la mia Mimì Bluette.”
Le due coppe di champagne scintillavano alla luce dei lampadari. Loro due, occhi negli occhi.
“Sapete di cosa parlerà il mio nuovo romanzo? Del ghiaccio e del fuoco che il ghiaccio sa accendere se ci si trova accanto una donna come voi, e di una montagna da scalare per raggiungere il centro del vostro piacere, e su quella montagna davanti e intorno a noi donne in kimono e io le spoglierò del loro kimono per farne il nostro giaciglio, sete preziose intessute di fili d’oro e d’argento su cui dar fremente consistenza all’atto d’amore.
E la montagna sarà di ghiaccio come il vostro sguardo di poco fa, e poi di fuoco come il vostro sguardo d’adesso.
E ora, mi concedete la vostra compagnia per un tratto di strada in questo freddo tardo pomeriggio d’inverno? Vogliamo insieme scoprire una Milano per tutti gli altri segreta?”.