Via San Venerio si chiamava una volta, Rogoredo oggi . Il primo giorno del 1900, primo gennaio, Capodanno, lì c’era una casa, di quelle case lunghe lunghe, su due lati, in mezzo un cortile anch’esso lungo lungo, e sul cortile s’affacciavano tante finestre, appiccicate le une alle altre, anche la vita di chi vi abitava era appiccicata alle vite degli altri. Si conoscevano tutti, e tutti combattevano contro la miseria e contro la vita grama. Mario e Raffaello. Chissà perché gli avevano messo nome Raffaello, un nome da signori, forse che i suoi già sapevano che signore sarebbe diventato. Signore, insomma. Era che quel primo gennaio, morta una zia novantenne, aveva saputo di essere lui l’erede dei soldi che la donna teneva nascosti in un fazzoletto bianco legato stretto con i quattro angoli annodati, e il fazzoletto avvolto in un tovagliolo anch’esso bianco e anch’esso annodato stretto ai quattro angoli; e su tutto un foulard nero, anche questo annodato. “Ma che ci tenete in quel fagotto?”, lo chiedevano tutti alla vecchia che l’aveva sempre sulle ginocchia, seduta in un angolo della stanza, e quando si alzava per appoggiare la fronte alla credenza, che con il libro da Messa fra le mani tutto il giorno seguiva il rito, celebrante e fedele allo stesso tempo, e si alzava al momento della Comunione, quando si alzava dunque il fagotto lo poggiava a terra accanto ai piedi. “Ma che ci tenete in quel fagotto?”. Non rispondeva, e del resto che ci doveva tenere? Al più, qualche biscotto. Così pensavano tutti. E invece c’erano dei soldi, che – arrivati in eredità – avrebbero fatto diventar signore Raffaello, almeno da essere adatto al suo nome.
Mario e Raffaello erano amici da trent’anni, cioè dal giorno che erano venuti al mondo. Ma adesso, quel primo giorno del 1900, giorno di gelo e di neve, amici non potevano più esserlo, perché il sangue ribolliva nelle vene di entrambi, e la natura chiedeva le sue ragioni. Si contendevano la stessa donna. Angela. Un demonio di donna, con gli occhi neri ardenti, con la fame d’amore dei vent’anni. E bastava che il ricordo dei suoi baci tornasse alla memoria di Mario, perché da quel tumulto in lui sortisse un odio feroce per Raffaello. “L’avete visto Mario? Magro da far paura. Fa pena”.
E lei, Angela, oh! se lo amava Mario, con tutta l’anima. Però una sera Raffaello si era fatto avanti: “Senti Angela, io voglio sapere se sei libera, se hai già preso qualche impegno amoroso, perché vedi, io… io… io… se io ti piaccio, io ti vorrei sposare”. Serio, posato, Raffaello, brava gente i suoi. E adesso poi anche l’eredità della zia. La madre di Angela non stava più in sé dalla soddisfazione da quando la figlia le aveva fatto la confidenza, e il padre se la rideva sotto i baffi, la figlia già sistemata. Brave persone anche i genitori di Mario, ma lui… bravo, certo, però, ancora ragazzo per la sua età, con troppi sogni per il capo, per niente adatto ad Angela che di sogni ne coltivava fin troppi di suo. E poi troppo bello, e troppo certo del suo fascino sulle donne. Uno così, la madre di Angela ne era certa e l’aveva detto alla figlia, “è già un miracolo se resta fedele la prima notte di nozze”. Lui invece di Angela era innamorato veramente, se la sarebbe sposata anche subito, la notizia che le avesse preferito il vecchio amico era la più grande imprevista sventura, tale da farlo ammattire.
Qualche sera dopo, Mario incontra Angela in cortile. È buio. Con impeto folle la bacia, la bacia con avidità. E lei? Lei lo allontana, gli dice: “Va’ via, va’ via, non lo sai che sono impegnata?”, ormai in preda all’ ambizione di nozze che anche le amiche sembravano invidiare. Esce dal portone Mario. S’avventura per le strade, non vede e non sente più nulla, o meglio continua a risentire la voce di lei: “Va’ via, va’ via non lo sai che sono impegnata?”. Come un cieco nella notte, sbatte contro i tronchi degli alberi tremando come se avesse la febbre addosso, piangendo, urlando maledizioni contro il mostro che gli ha rubato la vita. È l’alba. Un’alba gelida, immobile. Gelido e immobile anche Mario. Ha superato le tenebre, adesso vede chiaramente dentro la maligna visione della vendetta. “Astuto e feroce, ecco come devo essere. Raffaello non avrà scampo, lasciamogli credere che arriverà a gustare il miele delle nozze”. C’è una località cara a entrambi. Morsenchio, si chiama. Lì, da ragazzi, quanti pomeriggi ad accendere fuochi, a giocare, a rincorrere fantasie. “ Raffaello, dammi la mano. Dai, torniamo a essere amici, vuoi? Ho comperato una bottiglia. Ce la andiamo a bere, noi soli, nel nostro posto preferito da ragazzi? Facciamo pace, dai a modo nostro”. Raffaello ha accettato, in fondo gli spiaceva proprio aver perduto l’amico. Mario lo guarda andare verso casa, profilo stagliato nelle ombre della sera. “Ti ho detto a modo nostro, vecchio amico, maledetto nemico. Volevo dire a modo mio”. Lo dice in un sibilo, lo sguardo obliquo, l’anima livida. Guarda la bottiglia di vino, quello è il primo passo fatale, dagli altri non potrà più tornare indietro.
È quasi notte. Tutti, nella casa lunga lunga di via San Severio, si danno la voce: “Avete visto Raffaello?”. Era uscito per fare quattro passi dopo cena, com’è che non tornava?
Anche Angela è preoccupata. Non è da lui, e poi lasciare in pena i suoi genitori! No, non è da lui. Paura, un vago sentimento di tristezza, quasi un presentimento che stringe alle tempie fino a farle male. Mai, nel cortile, sono sembrate così misteriose le ombre della notte. Passa ancora un’ora. Ormai lo dicono tutti:” Dev’essere accaduta una disgrazia!”. La madre di Mario dice: ”Di Mario, che certe notti no torna, sono abituata. Che siano andati in giro insieme?”. Sembra strano a tutti, però a qualcosa bisogna dar credito per superare l’invadenza dell’angoscia.
Raffaello è là, a Morsenchio, nella luce dell’alba che attraversa i rami degli alberi e illumina i prati. È là, steso sull’erba, immobile, larghe chiazze di sangue hanno macchiato la nuca, il collo, una guancia, i vestiti, il terreno intorno al corpo. Una grossa pietra nelle mani di un amico. L’odio profondo nel suo cuore.